Questa settimana in ospedale abbiamo avuto il primo “Stakeholder
meeting”.
Si tratta di un incontro fra tutte le parti coinvolte nell'erogare e
nel ricevere i servizi del nostro ospedale. In altre parole la
dirigenza dell'ospedale, il suo staff e i partner donatori
incontrano gli “Health Center” (punti di salute sul territorio),
gli amministratori locali, i pazienti della comunità che afferisce
all'ospedale stesso.
Ovviamente tutto era organizzato in grande stile con tanto di
tensostrutture, catering e ospiti importanti (Vescovo, politici ecc)
Io ho una nota idiosincrasia per i meeting e i grandi eventi in
genere, ma mi sono sforzata di partecipare per cercare di capire.
L'ospedale di Aber riceve le proprie entrate per il 25% dal governo,
per il 25% dalle quote pagate dai pazienti per le prestazioni
ricevute e per il 50% da donatori.
Pur non essendo per me nuovo questo dato mi ha fatto ancora una volta
riflettere sul contesto in cui ci troviamo. Dà l'immagine di un
paese in cui la salute non è un diritto, non è una scelta politica,
non è un bene collettivo universalmente riconosciuto ma è... una
donazione! Di solito dall'uomo bianco all'uomo nero!!
Da questo assioma deriva un corollario di conseguenze che sono il
leitmotiv della cooperazione, e dell'aiuto in genere, ai cosiddetti
Paesi in via di sviluppo: lo staff chiede più salario, il territorio
chiede più servizi gratuiti, l'ospedale chiede più donazioni e i
donatori affermano che donerebbero di più se anche loro avessero a
loro volta più donatori.
Ho visto con i miei occhi come sono vere le parole di padre Giulio
Albanese, comboniano: i missionari e le ONG ormai sono diventati
tutti mendicanti.
Ormai mi sono convinta che quel 50% di donazioni è un macigno che
impedisce la presa di coscienza di una popolazione di essere oggetto
di un diritto inalienabile.
So bene che senza quel 50% non ci sarebbe alcun servizio per nessuno.
Mi stupisce l'ottimismo incrollabile di chi è coinvolto e comprendo
bene il realismo di chi vuole mandare avanti a tutti i costi un
progetto che nell'immediato produce un bene per una comunità, ma non
riesco a convincermi che il compromesso sia accettabile. Non riesco a
scacciare il pensiero che il donatore si possa trasformare suo
malgrado nell'oppressore.
Il mio credo così integralista è senza dubbio poco pragmatico e se
tutti la pensassero come me senza dubbio non se ne farebbe niente. O
forse sarebbero i veri protagonisti di questa storia a cominciare a
fare qualcosa: agire, rivendicare, responsabilizzarsi, diventare una
collettività, una comunità.
Credo che sia ormai il tempo (...spero che siamo ancora in tempo...)
per i paesi “sviluppati” (?) di resistere alla tentazione
dell'agire, di sospendere il giudizio e di mettersi da parte, magari
impegnandosi a rimuovere gli altri grandi macigni che pesano in
particolare sull'Africa -debito, sfruttamento delle risorse,
presidenti pseudo-democratici amici delle grandi potenze- per
permettere a questo popolo di trasformarsi da ricevente donazioni ad
avente diritti.
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