mercoledì 28 agosto 2013

Aber - anno II - cinquantottesima settimana

Il nostro viaggio ad Aber

Un viaggio desiderato già dall'anno scorso; progettato con gioia fin nei minimi particolari, perchè fosse l'occasione per vivere un'esperienza di missione insieme, come coppia.
Un viaggio sofferto, perchè ci ha letteralmente fatto soffrire la delusione provata nel vedere tutti i nostri sforzi scontrarsi contro il fallimento. Un imprevisto a pochi giorni dalla partenza, come un'epidemia di Ebola, e tutto salta, per paura, prudenza o poca informazione… e tanta confusione in testa e nel cuore!
Un viaggio che ci ha fatto crescere: abbiamo provato sulla nostra pelle cosa significa prendere una decisione difficile insieme e condividerla.
Un viaggio che è iniziato quindi un anno fa sebbene siamo partiti fisicamente solo a luglio di quest’anno, quando finalmente ci siamo ritrovati in aeroporto, con le valigie piene, lo zaino in spalla e un desiderio di partire ancora più grande!
E' servito tutto il lungo viaggio in aereo, e la prima notte a Kampala per rendersi conto che finalmente eravamo arrivati. Finalmente in Africa, insieme.
Ma il nostro viaggio non era – allora, e non è nemmeno oggi - che all'inizio. Tante sono infatti le domande, le provocazioni, i pensieri e gli incontri che abbiamo raccolto e accolto in questa esperienza e che possono cambiare il nostro modo di pensare e di vivere oggi.
Un viaggio atteso ma alla fine inaspettato… non è mai stato una conferma di ciò che ci aspettavamo. Pensavamo di partire l’anno scorso, ma così non è stato; pensavamo che ci saremmo potuti spendere per la gente e a volte ci siamo sentiti del tutto inutili; pensavamo anche che sarebbe stato facile inserirsi nella chiesa africana e trovarvi stimoli forti per la nostra preghiera e invece ci sono stati momenti in cui facevamo fatica a pregare. Speravamo, ma non ci aspettavamo, di trovarci così bene nella casa che ci ha ospitato, né pensavamo di poterci sentire così accolti e parte della loro famiglia.

“Dio ti accompagna con i suoi doni, ma non è mai dove pensiamo debba essere. Ci sorprende e, invitandoci a un nuovo passo, ci strappa alla tentazione di chiuderci in un luogo (fisico o metaforico, spaziale o ideale).” (L.Moscatelli)

Ecco uno degli stimoli più belli della spiritualità missionaria, essere continuamente chiamati a camminare, a crescere, a sbattere il muso contro le proprie convinzioni fino a cadere e infine rialzarsi, pronti a compiere un nuovo passo.
In questo mese ad Aber abbiamo sperimentato la difficoltà di comprendere certi ragionamenti, certe usanze e ci siamo resi conto di come davvero al mondo non ci sia un solo modo di pensare, di pregare, non una sola lingua per comunicare né una sola espressione del volto per dire “sì” o una sola spiegazione per tutto ciò che accade. Ci siamo sperimentati diversi in mezzo ad un popolo unito dalla stessa cultura ed abbiamo sentito ogni giorno il peso dello sguardo fisso della gente sul colore della nostra pelle, sul nostro modo di muoverci e di parlare, come fossimo un’attrazione irresistibile… (non capita forse qualcosa di molto simile in italia nei confronti di un immigrato?) . La prima reazione che è sorta dal sentirsi così diversi è stata una reazione di critica su ciò che osservavamo non funzionare e su ciò che ci sembrava arretrato e insostenibile. Ma poi lo stesso occhio critico abbiamo imparato a dirigerlo anche verso noi stessi e verso quella vita quotidiana in Italia a cui siamo tanto abituati. Ci siamo accorti così di come per quanto diverse, l’Uganda e l’Italia siano ugualmente terre di missione, terre in cui alcune cose sono difficili da accettare, mondi in cui possiamo contribuire con la nostra parte a costruire qualcosa di bello, mondi che però non possiamo cambiare del tutto. È stato bello potersi confrontare liberamente con Marco e Mariagrazia riguardo al loro essere famiglia lì, ad Aber, in questi tre anni, e c’è una frase che ci sembra calzi a pennello con quello che ci hanno testimoniato: “sii tu il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”. Per quanto molti loro sforzi per migliorare le cose in ospedale e all’orfanotrofio potranno risultare insufficienti, per quanto alcune lotte andranno inevitabilmente perdute, la loro presenza di famiglia ad Aber ha sicuramente la capacità di lasciare un segno (e non solo in Uganda...).

Concludiamo con una bella provocazione raccolta da alcuni dei missionari che abbiamo incontrato: non dobbiamo sentirci noi la soluzione a tutto, ma dobbiamo essere capaci di fare la nostra parte con la fiducia che non siamo soli a costruire.

Per curiosare qualche foto potete cliccare qui

Gloria & Luca

giovedì 22 agosto 2013

Aber - anno II - cinquantasettesima settimana

Ospitalità

“aggiungi un posto a tavola”, “indovina chi viene a cena”, “la pedagogia del vivere con la porta aperta” questi e mille altri modi di dire o teorie sono stati usati per affrontare la tematica dell’ospitalità in diversi periodi e in diversi contesti. Già in passato avevamo sottolineato come i 9 mesi di vita nella comunità di famiglie di Cascina Castellazzo avesse ricoperto un ruolo molto importante nella formazione pre-partenza, ma in questo Agosto ce ne stiamo rendendo particolarmente conto. Agosto, essendo periodo di ferie in Italia, è chiaramente un mese di vai e vieni più intenso ma, in realtà, quella dell’ospitalità è una parte costante e fondamentale della nostra esperienza di missione.  Chiaramente le finalità delle visite della gente che passa sono le più diverse ma il nostro obiettivo ultimo rimane lo stesso: condividere la nostra esperienza cercando di favorire il più possibile l’incontro con l’Africa e, nello specifico, con Aber.
Così si sono succedute persone che avevano i più diversi tipi di rapporti con noi: amici, amici di amici, conoscenti, amici di conoscenti, conoscenti di conoscenti, guests of honor  fino ad arrivare ai perfetti sconosciuti.
C’è da dire che ogni tipo di visita lascia qualcosa. E non è un luogo comune. Sicuramente alcune sono più stancanti, altre più rilassanti ma tutte ti aiutano a riflettere ancora una volta su ciò che stai vivendo e sulle motivazioni che ti spingono a rimanere qui. Inoltre, ti danno comunque la possibilità di vedere le cose con un occhio diverso e di chi, sicuramente, è meno condizionato dalle stanchezze, dalle delusioni o, al contrario, dal coinvolgimento e da alcune presunte certezze frutto dello stare qui da un po’ di tempo.
A parte gli amici e alcuni conoscenti il cui arrivo era preventivato e desiderato, altre persone sono state invece più impreviste! Ecco allora che ti può capitare di ospitare un vescovo a dormire per una notte, oppure gli allenatori dell’Inter, o ancora dieci persone che ti telefonano la mattina informandoti del loro arrivo imminente per visitare l’ospedale e il St.Clare…vuoi non invitarle a rimanere per pranzo? O un altro gruppo che si ferma perché di passaggio per andare a Gulu…benvenuti!
Un episodio curioso è stata la visita di una coppia di Svedesi. Ero in casa quando sento bussare alla porta…vado ad aprire e c’è il cleaner dell’ospedale che invita questa coppia di ragazzi ad entrare in casa nostra e utilizzare il nostro bagno! Nel frattempo arriva Maria Grazia “ciao Mari, non entrare nel bagno in fondo che è occupato da una ragazza svedese!” “ vabbè. Già che siete qui sedetevi un attimo, prendete qualcosa da bere e facciamo due chiacchiere!”
Il flusso di persone è talmente continuo (se, oltre ai bianchi, si considerano anche i locali) che non puoi permetterti di distrarti un attimo… l’altro giorno me ne stavo seduto bello tranquillo sull’uscio di casa dando le spalle alla porta quando sento qualcuno uscire dicendo “grazie, ho finito”…era un uomo sconosciuto che usciva in accappatoio da casa mia!
Fortunatamente la porta aperta oltre a far entrare permette anche di uscire e così lasciatemi ringraziare anche chi, ospite tra le nostre mura o vicino di casa, ha alleggerito la nostra permanenza con babysitteraggi o subendosi i nostri sfoghi e le nostre stanchezze.
E allora che sia “Apwoio bino” oppure “yes you are welcome, come in, the door is open” o ancora “vieni, vieni, la porta è aperta!” la sfida dell’ospitalità è sempre attuale ma forse ne vale la pena perché “alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo” (Eb 13:2)

mercoledì 14 agosto 2013

Aber - anno II - cinquantaseiesima settimana


Piccio-almanacco
La Mari dice spesso che a me piace fare il momento almanacco...effettivamente è così! A volte per ricordare alcuni periodi difficili ormai trascorsi, altre volte per celebrare avvenimenti o ricorrenze che hanno segnato alcuni momenti della vita. Non potevo naturalmente esimermi dal farlo per la nostra avventura africana.
Fra pochi giorni ricorrerà l'anniversario del nostro arrivo ad Aber...il secondo anniversario per l'esattezza! Già, due anni di Africa.
Oltre a tutte le sensazioni già condivise durante questo periodo, mi colpivano due riflessioni:
  • è la casa in cui, da sposati, abbiamo vissuto più a lungo;
  • il Franci ha vissuto più tempo in Africa che in Italia!
Per quanto riguarda la prima, il nostro girovagare in questi 7 anni di matrimonio ci ha portati a non sostare mai per più di due anni nella stessa casa: 6 mesi nella prima casa di Parma, quasi 2 anni nella seconda (con l'intermezzo di 3 mesi a Liverpool), quasi due anni a Rho, 9 mesi a Cambiago. Non per niente la bomboniera del nostro matrimonio era una tartaruga...casa sempre sulle spalle e camminare! Scherzi a parte si potrebbero fare molte riflessioni su cosa significhi “casa” estendendo il significato oltre le quattro mura dell'edificio-casa. “Casa è dove posso stare in pace” per dirla con le parole di Lorenzo, ma allora cosa vuol dire trovar pace? vuol dire compiere la propria strada? Vuol dire sentirsi al sicuro? Vuol dire essere vicino agli affetti? Vuol dire camminare insieme ad un gruppo di persone? Forse l'ottimo sarebbe riuscire a sintetizzare tutti questi tentativi di risposta in un solo posto...ma può risultare difficile e così bisogna privilegiare l'uno o l'altro aspetto a seconda dei momenti. La seconda riflessione porterebbe farci addentrare in considerazioni sull'argomento immigrazione/diritto di cittadinanza e quant'altro ma risulterebbero forse un po' pesanti così mi limito a condividere delle sensazioni: è strano pensare che il Franci sia cresciuto più qui in Uganda che in Italia. Quando siamo arrivati non aveva ancora due anni e adesso ne sta per compiere quattro. Naturalmente, da genitore, capita spesso di chiedersi se per lui (e ora anche per il Samu) rimanere qui sia la scelta giusta, ma anche in questo caso non mi so dare una risposta sicura. Fa specie sentirgli dire che il suo frutto preferito è il Jaka fruit e non la fragola o la mela (chissà che ridere quando andrà all'asilo in Italia e gli faranno la stessa domanda?), stupisce sentirgli dire che noi siamo gli unici grigi (già non bianchi e neri, ma sfumature di grigio!); meraviglia pensare che ha visto più elefanti, giraffe e coccodrilli che cani e gatti.
Non so, come sempre gli almanacchi non risolvono problemi e non danno risposte a domande. Semplicemente suscitano emozioni...ma forse è proprio da queste che bisogna lasciarsi trasportare per capire cosa è giusto fare e dove andare.

giovedì 8 agosto 2013

Aber - anno II - cinquantacinquesima settimana

Il punto sui progetti

Mi scuso in anticipo se questo post non sarà entusiasmante come al solito (modestia a parte!) ma a volte è giusto fare anche delle comunicazioni di servizio! Così questa settimana vorrei aggiornarvi sullo stato dei progetti che molti di voi hanno sostenuto. Naturalmente, dietro alla “fredda cronaca” c’è un “caldo ringraziamento” da parte della gente di qui…dai bimbi dell’asilo ai ragazzi dell’orfanotrofio, dai componenti del coro a tutti gli abitanti di Aber che in qualche modo sono arrivati con le loro vite nelle vostre case ma che, in direzione opposta, hanno potuto anche conoscere un po’ meglio l’Italia e gli italiani sentendosi così meno soli nella loro dura lotta quotidiana.
I tre principali ambiti di intervento sono stati l’asilo, il St.Clare e il coro.

Asilo: l’asilo St.Josephine Bakhita è l’asilo parrocchiale di Aber. Nato solo 3 anni fa versava in condizioni indegne. Quando l’associazione Pan di Zucchero è venuta in contatto con questa realtà, ha deciso di accollarsi i costi della ristrutturazione degli edifici e mi ha chiesto di seguire i lavori da vicino. I lavori sono avvenuti in due fasi successive: nella prima sono stati ristrutturati i blocchi delle classi e della cucina, nella seconda sono state invece sistemate le latrine e un salone attualmente usato come magazzino ma che presto diventerà sala giochi. Successivamente grazie ad aiuti provenienti da amici e conoscenti è stato possibile apportare delle migliorie essenziali per una scuola materna. Sono state quindi pitturate sui muri delle decorazioni didattiche (come l’alfabeto, i numeri e la piantina dell’Uganda) e non (come il logo, il motto della scuola e il simbolo dell’Uganda); in seguito sono stati acquistati i banchi e le panche (in precedenza i bimbi si sedevano per terra o su delle panche sgangherate che spesso risultavano pericolose e per scrivere si mettevano in ginocchio appoggiando il quaderno sulle stesse panche); parte fondamentale dell’arredo di un asilo sono senz’altro i giochi e così abbiamo messo delle altalene, una giostra, una struttura per arrampicarsi, due scivoli, delle gomme piantate nel terreno e delle porticine per crescere oggi i campioni di calcio di domani! Infine è stato acquistato del materiale essenziale per avviare e gestire un asilo che, anche se può sembrare strano, mancava totalmente in precedenza (penne, quaderni per maestri, registri, cancellini, righelli, etc.etc.etc)
Oltre alla ristrutturazione fisica si è cercato di migliorare anche la qualità dell’insegnamento e della gestione dell’asilo. In modo particolare abbiamo trovato un head teacher con più esperienza, abbiamo costituito una commissione per seguire l’aspetto didattico e una per l’aspetto economico. Presto procederemo con la registrazione della scuola presso il ministero dell’istruzione.

St.Clare: purtroppo i due progetti legati all’orfanotrofio hanno trovato delle opposizioni inaspettate e incomprensibili che hanno un po’ rallentato la loro realizzazione. Come forse vi ricorderete le due idee erano:

·         costruire un’area sport (sistemare il campo da calcio e costruire un campo da basket e uno da pallavolo)

·         “adottare” un educatore (pagando gli stipendi di due figure educative locali per un anno così da dimostrare – come se ce ne fosse bisogno ! – che in un orfanotrofio con cento ragazzi pre-adolescenti serve un po’ più di personale, rispetto alle attuali tre suore, che si occupi dell’aspetto educativo)

I donors e il board hanno ritenuto non necessario introdurre delle nuove figure educative e anche per l’area sport hanno posto dei limiti sebbene di entrambe le iniziative fossero stati precedentemente informati. Comunque sembra che ora si siano convinti che almeno avere degli spazi “fatti bene” per i ragazzi per giocare e fare sport non sia del tutto fuori luogo in un orfanotrofio. Così abbiamo fatto fare dei preventivi per livellare il campo da calcio (il rischio storte/distorsioni/fratture era elevatissimo)  e per mettere delle porte; per costruire un campo multi-purpose per basket e pallavolo o, in alternativa, uno per basket su cemento e uno per pallavolo su erba.
Questo progetto verrà finanziato con i soldi raccolti durante il presepe di Venegono. (Una piccola parte di questi soldi sono stati usati per ultimare i lavori dell’asilo)

Piccio-gadget : terzo ambito di intervento deriva dai soldi raccolti con i piccio-gadget (cd e libro fotografico). Come deciso in precedenza, questi soldi sono stati messi interamente a disposizione dei protagonisti di queste attività (i componenti del coro della parrocchia e i ragazzi del St.Clare). Nel caso del coro sono stati utilizzati in una piccola parte per pagare le ore spese dal maestro  per scrivere e tradurre i testi (oltre che per fare le prove) ma per la maggior parte sono serviti per comprare nuovi strumenti e per una divisa ufficiale del coro. I ragazzi del St.Clare hanno invece richiesto delle divise per calcio e pallavolo, un mweso (gioco tradizionale africano) e altro materiale (corde per saltare, palloni).

Disegni: un ultimo resoconto va fatto sui disegni raccolti durante il periodo natalizio e fatti dai bimbi che passavano dal presepe dei comboniani. Hanno riscosso un grande successo! Ne sono arrivati 951! Al momento della distribuzione i ragazzi erano molto contenti di ricevere questo piccolo pensiero da amici lontani! I migliori li abbiamo attaccati su un cartellone che è stato poi appeso in salone.

Per vedere delle foto dei vari progetti potete cliccare sull'album "progetti" nelle Piccio-foto

Per un resoconto più dettagliato sulle entrate e le uscite dei vari progetti, potete scaricare il bilancio progetti cliccando qui

venerdì 2 agosto 2013

Aber - anno II - cinquantaquattresima settimana

Aber Hospital - "Stakeholder meeting"

Questa settimana in ospedale abbiamo avuto il primo “Stakeholder meeting”.
Si tratta di un incontro fra tutte le parti coinvolte nell'erogare e nel ricevere i servizi del nostro ospedale. In altre parole la dirigenza dell'ospedale, il suo staff e i partner donatori incontrano gli “Health Center” (punti di salute sul territorio), gli amministratori locali, i pazienti della comunità che afferisce all'ospedale stesso.
Ovviamente tutto era organizzato in grande stile con tanto di tensostrutture, catering e ospiti importanti (Vescovo, politici ecc)
Io ho una nota idiosincrasia per i meeting e i grandi eventi in genere, ma mi sono sforzata di partecipare per cercare di capire.
L'ospedale di Aber riceve le proprie entrate per il 25% dal governo, per il 25% dalle quote pagate dai pazienti per le prestazioni ricevute e per il 50% da donatori.
Pur non essendo per me nuovo questo dato mi ha fatto ancora una volta riflettere sul contesto in cui ci troviamo. Dà l'immagine di un paese in cui la salute non è un diritto, non è una scelta politica, non è un bene collettivo universalmente riconosciuto ma è... una donazione! Di solito dall'uomo bianco all'uomo nero!!
Da questo assioma deriva un corollario di conseguenze che sono il leitmotiv della cooperazione, e dell'aiuto in genere, ai cosiddetti Paesi in via di sviluppo: lo staff chiede più salario, il territorio chiede più servizi gratuiti, l'ospedale chiede più donazioni e i donatori affermano che donerebbero di più se anche loro avessero a loro volta più donatori.
Ho visto con i miei occhi come sono vere le parole di padre Giulio Albanese, comboniano: i missionari e le ONG ormai sono diventati tutti mendicanti.
Ormai mi sono convinta che quel 50% di donazioni è un macigno che impedisce la presa di coscienza di una popolazione di essere oggetto di un diritto inalienabile.
So bene che senza quel 50% non ci sarebbe alcun servizio per nessuno. Mi stupisce l'ottimismo incrollabile di chi è coinvolto e comprendo bene il realismo di chi vuole mandare avanti a tutti i costi un progetto che nell'immediato produce un bene per una comunità, ma non riesco a convincermi che il compromesso sia accettabile. Non riesco a scacciare il pensiero che il donatore si possa trasformare suo malgrado nell'oppressore.
Il mio credo così integralista è senza dubbio poco pragmatico e se tutti la pensassero come me senza dubbio non se ne farebbe niente. O forse sarebbero i veri protagonisti di questa storia a cominciare a fare qualcosa: agire, rivendicare, responsabilizzarsi, diventare una collettività, una comunità.
Credo che sia ormai il tempo (...spero che siamo ancora in tempo...) per i paesi “sviluppati” (?) di resistere alla tentazione dell'agire, di sospendere il giudizio e di mettersi da parte, magari impegnandosi a rimuovere gli altri grandi macigni che pesano in particolare sull'Africa -debito, sfruttamento delle risorse, presidenti pseudo-democratici amici delle grandi potenze- per permettere a questo popolo di trasformarsi da ricevente donazioni ad avente diritti.