giovedì 12 giugno 2014

Aber - anno III - trentaquattresima settimana

Sarah, Molly e le mamme africane

Sarah e Molly sono due mamme. Sono amiche e accomunate dal fatto di avere entrambe un figlio di 6 anni malato e dal fatto che io in questi tre anni ho cercato di prendermi cura dei loro bambini.
Oggi Molly è venuta con la sua bambina, Petra, che seguo per una anemia cronica e dopo la visita mi ha detto: “Come faremo ora che tu te ne vai? Chi si prenderà cura di Petra?”
Sarah era lì con noi, perché è anche una delle mie infermiere, e le ha risposto: “Cosa dovrei dire io? Chi seguirà Jacob che ha l'anemia falciforme?”
Poi ad entrambe sono sgorgate grosse lacrime dagli occhi.
Io ho cercato di sdrammatizzare: “...ma non siete vere african mothers!!!”
“Non siamo abbastanza forti...” ha risposto Sarah.
Già! Le madri africane che ho imparato a conoscere non si possono permettere di piangere per un figlio malato, perché di solito ne hanno altri cinque o sei a cui pensare.
Eppure anche qui, sotto questa coltre di calma apparente, di eterna immutabilità mai perturbata da sentimenti troppo forti, ci sono madri (chissà quante!), che si preoccupano e soffrono come me e più di me...anche per uno solo dei loro figli!
Sarah e Molly sono madri come me, preoccupate quando i loro figli non stanno bene. E non mi hanno ringraziata per il supporto economico che ho dato loro o per gli speciali farmaci europei che ho loro procurato: non lo ho mai fatto. Mi hanno ringraziata perché ci sono stata quando i loro bambini hanno avuto bisogno. E ora temono che non troveranno qualcun altro che abbia la stessa attenzione e la stessa compassione. Non vogliono che io porti i loro bambini in Italia e li guarisca: sanno che i loro bambini forse moriranno e magari sono anche pronte a questo. Ma chiedono che qualcuno si prenda cura di loro. E la loro richiesta nelle mie orecchie diventa grido di un popolo che non ha diritto a nulla, neanche alla cura, alla compassione per gli ammalati.
La piccola Petra in tre anni in cui l'ho vista circa una volta al mese mi ha sorriso solo una volta. E il piccolo Jacob quando ha saputo da sua mamma che io me ne andrò ha commentato: “Ma i pazienti soffriranno per questo!” e sua sorella lo ha preso in giro: “Anche tu!”. Sono piccoli già saggi come adulti. Perché la vita non darà loro il tempo di diventare saggi col tempo.
Mi viene da pensare che qui la missione bisogni ricominciarla da zero, dall'insegnare il comandamento più grande: ama il prossimo tuo come te stesso.
Non so se sono stata capace di fare questa missione in questi tre anni, se lo avessi fatto almeno per un giorno ne sarebbe valsa la pena.

Posso solo sperare che tutte le sorelle e i fratelli ugandesi che già lo fanno continuino a diffondere quest'unica parola che dà vita. 

1 commento:

  1. Piango leggendo questo post......
    ........abbraccia Sarah da parte mia

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