mercoledì 22 gennaio 2014

Aber - anno III - sedicesima settimana

Alip

Alip aveva 9 vite come un gatto. Ma l'altra notte s'è giocato anche la nona.
Alip aveva 11 anni, una malattia cronica ai reni, una famiglia povera e disagiata con un padre alcolista, la voglia di vivere e quella strana incoscienza tipica di quell'età.
Tutti gli anni più o meno in questo periodo arrivava all'ospedale in condizioni indescrivibili.
Prima Caterina, poi io, lo riprendevamo per i capelli e dopo qualche settimana lo rimandavamo a casa e così via.
Questa volta non andrà così. Io non l'ho neanche visto. E' arrivato di sera e la notte stessa è morto. Ma come? Cosa aveva? Cosa è successo? Perché non avete chiamato il medico quando è stato male? Continuavo a chiedere la mattina. La risposta: semplicemente è peggiorato ed è morto. Silenziosamente. Senza disturbare. Senza dover chiamare un dottore, senza dover dare una terapia d'emergenza o fare una rianimazione. E' morto.
Questa risposta vale in Africa, o almeno ad Aber. Questa risposta è sufficiente. Non lascia nessuno insoddisfatto.
Neanche me. Ma a me lascia il vuoto. Il vuoto che ha lasciato un ragazzino di 11 anni nella sua famiglia, per quanto scombinata, nel compound, nel villaggio. In quel gruppo di 20 o 30 scalmanati che bigiano la scuola e vanno a fare il bagno al fiume o si arrampicano sui manghi è rimasto quel vuoto pneumatico che ha lasciato la risposta delle mie infermiere nel mio stomaco.
Le mie infermiere di quella notte sapevano che potevano chiamare il medico. Sapevano che dovevano farlo. Ma non hanno voluto farlo. Non perché sono cattive o menefreghiste. Non c'è nessun giudizio etico in queste osservazioni. Di fatto il perché non va cercato in Africa. Mai. Porta lungo chine pericolose. 
Quella africana non è la filosofia dei perché. Davanti al mio incalzare di domande che seguono un inesorabile filo logico aristotelico non sono mai riuscita ad ottenere risposte. Non so se per l'eloquenza della mia retorica o per la totale mancanza di significato alle loro orecchie.
Non è ancora questo il vuoto più inaccettabile. Ma quello che separa questo mondo da quello che pensa che in questo stesso spazio e tempo si possa mettere un laboratorio analisi grandissimo e costosissimo in grado di fare esami e quindi diagnosi di malattie che poi non sapremo, non potremo, e soprattutto non vorremo curare.
Si può cambiare certo. Ma il cambiamento suppone tante fasi e tutte dipendono strettamente dalla scelta del soggetto del cambiamento stesso.
Il vuoto inaccettabile è quello fra due mondi che non solo non si sono mai realmente conosciuti e capiti, ma che non si sono proprio mai incontrati e nonostante ciò sembrano condannati a vivere insieme nello stesso barattolo. Sotto vuoto. Senza possibilità di trovare un mezzo che li metta in comunicazione.
Noi, mondo bianco, continuiamo a pensare che loro abbiano bisogno di strumenti, di possibilità, di formazione. E che siamo noi a doverglieli dare. Ma è quello che noi pensiamo. E a guardar bene è un po' supponente, quasi quasi direi razzista. Questo pensiero dominante del cooperante, dell'aiutante, dell'elemosinante ha ingabbiato noi e loro in un gioco delle parti da cui è quasi impossibile uscire. Ed è la forma di colonialismo più subdola e velenosa che io abbia mai visto.

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