martedì 8 novembre 2011

Aber - dodicesima settimana

Dall'ospedale:
Non so come si chiama la mamma di Isaac.
Io la chiamavo semplicemente “Mama Isaac”, come si usa fare qui.
L'ho conosciuta una mattina, circa un mese fa, quando seduta nella “procedure room” della pediatria teneva in braccio Isaac appunto, un fagottino riccioluto di quattro mesi che aveva le convulsioni subentranti da un'ora o forse più mentre i “miei” infermieri lo guardavano dicendo: “Si si! Ora si vede proprio che sono convulsioni...”.
Mama Isaac non diceva una parola, non fiatava neanche, ma io sentivo che stava pregando.
E sicuramente è stato questo a mantenere Isaac in vita. Non sicuramente le mie urla contro gli infermieri che non stavano facendo niente, né le cannule di Mayo pediatriche che ho recuperato in maternità, né le fiale di diazepam e di idrocortisone e neanche le quintalate di antibiotici e chinino che gli ho somministrato.
Man mano che passavano i giorni e Isaac lentamente, molto lentamente, migliorava lei iniziava a sorridere. Non abbiamo mai potuto scambiare molte parole, ma io so che lei mi capiva anche se parlavo in inglese.
Il giorno in cui i “muno” (i bianchi, gli italiani) sono venuti a visitare il reparto è stata lei a organizzare le altre mamme per fare un canto di accoglienza: perché lei era la “mamma senior” e doveva coordinare tutte le altre; ma soprattutto perché anche quella mattina Isaac era vivo e questo era un buon motivo per lodare Dio.
Dall'orfanotrofio:
A volte sono i piccoli gesti inaspettati che ti suggeriscono cose importanti. Da quando siamo arrivati, cerchiamo di andare a messa quasi tutte le mattine alternandoci un giorno io e un giorno la Mari. In modo particolare io ci tengo ad andare il sabato mattina perchè la messa è partecipata e in parte un po' animata dai ragazzi dell'orfanotrofio. E' un bel momento da vivere con loro. Così sabato scorso suona la sveglia alle 6:30; apro gli occhi (e soprattutto le orecchie) e sento che fuori sta piovendo. La voglia di alzarsi diminuisce, quasi si azzera, però decido di alzarmi e andare...infondo io ho gli stivali, l'ombrello e la chiesa non dista più di 200 metri da casa nostra. "Sicuramente i ragazzi non ci saranno - penso - però voglio andare comunque". Arrivo in chiesa ed effettivamente i ragazzi non ci sono. Il mio inguaribile pregiudizio è già pronto a condannare:"quei pigroni hanno subito trovato la scusa per non venire". Poi effettivamente penso che sotto quella pioggia torrenziale è difficile per loro raggiungere la chiesa, in modo particolare da quando li hanno messi nel nuovo edificio a un chilometro di distanza. Non ho ancora finito di fare tutte le mie congetture, che ecco entrare in chiesa un gruppetto di 4/5 ragazze dell'orfanotrofio: senza ombrello naturalmente (NB: la strada per l'orfanotrofio non offre nessun tipo di riparo), a piedi nudi, con in testa un velo fradicio come unica protezione, tutte infreddolite. E dopo un po' ancora arriva un altro gruppetto e poi ancora un altro. Fuori continua a piovere, le strade sono degli acquitrini fangosi...gli ultimi arrivano alla comunione, ma ci sono! Dopo la messa mi fermo a parlare con loro, a ringraziarli perchè la loro presenza, in modo particolare in questo piovoso sabato mattina, era stata importante. Sta ancora piovendo e si preparano a tornare a casa. "Andate sotto la pioggia?" chiedo io ingenuamente. "Yes, no problem, do you fear the rain?"
Questa risposta mi ha fatto molto pensare. Da una parte mi viene una riflessione sul mio vissuto personale, dall'altra l'ennesima riflessione sulle contraddizioni di questo mondo. Personalmente mi vergogno per tutte le scuse che trovo quando non voglio fare qualcosa. Come è facile assecondare la pigrizia, quante "pioggie" si frappongono tra me e le tante cose che ci sarebbero da fare. Dall'altra mi viene da pensare che se questa gente fosse altrettanto pronta a sfidare la pioggia per andare a lavorare come lo è per andare a messa, forse sarebbe meglio. Spesso capita che in ospedale il personale non si presenta perchè piove e improvvisamente sono loro ad avere paura della pioggia. E allora, magari per cose diverse, ma in Italia come in Africa, sarebbe opportuno chiedersi un po' più spesso "do you really fear the rain?"
Da Francesco...per tutti i bimbi (ma non solo!):
ciao...ecco una canzoncina che mi piace tanto in questo periodo e che vorrei condividere con voi: La tartaruga (cliccateci sopra!) dite ai grandi che una delle differenze maggiori tra l'Africa e l'Italia sono i ritmi e la velocità e questa canzone parla proprio di questo. La tartaruga andando troppo veloce fa un incidente contro un muro ed è costretta a rallentare e solo così trova la felicità: carote e gelato che andando troppo forte non aveva mai notato. La tartaruga, lenta com'è, afferra al volo la fortuna quando c'è, dietro una foglia, lungo la via, trova là per là la felicità...ditelo ai grandi!
Un bacino a tutti!

1 commento:

  1. Hai proprio ragione, Francy... Se imparassimo a "rallentare" un pò questo stile di vita moderno, talvolta troppo frenetico, forse riusciremmo a vivere in modo diverso e forse ad ad essere un pò più felici...
    Vi ricordo sempre... Un abbraccio Miriam

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