Sarah e Molly sono due mamme.
Sono amiche e accomunate dal fatto di avere entrambe un figlio di 6 anni malato
e dal fatto che io in questi tre anni ho cercato di prendermi cura dei loro
bambini.
Oggi Molly è venuta con la sua
bambina, Petra, che seguo per una anemia cronica e dopo la visita mi ha detto:
“Come faremo ora che tu te ne vai? Chi si prenderà cura di Petra?”
Sarah era lì con noi, perché è
anche una delle mie infermiere, e le ha risposto: “Cosa dovrei dire io? Chi
seguirà Jacob che ha l'anemia falciforme?”
Poi ad entrambe sono sgorgate
grosse lacrime dagli occhi.
Io ho cercato di sdrammatizzare:
“...ma non siete vere african mothers!!!”
“Non siamo abbastanza forti...” ha
risposto Sarah.
Già! Le madri africane che ho
imparato a conoscere non si possono permettere di piangere per un figlio
malato, perché di solito ne hanno altri cinque o sei a cui pensare.
Eppure anche qui, sotto questa
coltre di calma apparente, di eterna immutabilità mai perturbata da sentimenti
troppo forti, ci sono madri (chissà quante!), che si preoccupano e soffrono
come me e più di me...anche per uno solo dei loro figli!
Sarah e Molly sono madri come me,
preoccupate quando i loro figli non stanno bene. E non mi hanno ringraziata per
il supporto economico che ho dato loro o per gli speciali farmaci europei che
ho loro procurato: non lo ho mai fatto. Mi hanno ringraziata perché ci sono
stata quando i loro bambini hanno avuto bisogno. E ora temono che non
troveranno qualcun altro che abbia la stessa attenzione e la stessa
compassione. Non vogliono che io porti i loro bambini in Italia e li guarisca:
sanno che i loro bambini forse moriranno e magari sono anche pronte a questo.
Ma chiedono che qualcuno si prenda cura di loro. E la loro richiesta nelle mie
orecchie diventa grido di un popolo che non ha diritto a nulla, neanche alla
cura, alla compassione per gli ammalati.
La piccola Petra in tre anni in
cui l'ho vista circa una volta al mese mi ha sorriso solo una volta. E il
piccolo Jacob quando ha saputo da sua mamma che io me ne andrò ha commentato:
“Ma i pazienti soffriranno per questo!” e sua sorella lo ha preso in giro:
“Anche tu!”. Sono piccoli già saggi come adulti. Perché la vita non darà loro
il tempo di diventare saggi col tempo.
Mi viene da pensare che qui la missione
bisogni ricominciarla da zero, dall'insegnare il comandamento più grande: ama
il prossimo tuo come te stesso.
Non so se sono stata capace di
fare questa missione in questi tre anni, se lo avessi fatto almeno per un
giorno ne sarebbe valsa la pena.
Posso solo sperare che tutte le
sorelle e i fratelli ugandesi che già lo fanno continuino a diffondere
quest'unica parola che dà vita.
Piango leggendo questo post......
RispondiElimina........abbraccia Sarah da parte mia