Alip
aveva 9 vite come un gatto. Ma l'altra notte s'è giocato anche la
nona.
Alip
aveva 11 anni, una malattia cronica ai reni, una famiglia povera e
disagiata con un padre alcolista, la voglia di vivere e quella strana
incoscienza tipica di quell'età.
Tutti gli
anni più o meno in questo periodo arrivava all'ospedale in
condizioni indescrivibili.
Prima
Caterina, poi io, lo riprendevamo per i capelli e dopo qualche
settimana lo rimandavamo a casa e così via.
Questa
volta non andrà così. Io non l'ho neanche visto. E' arrivato di
sera e la notte stessa è morto. Ma come? Cosa aveva? Cosa è
successo? Perché non avete chiamato il medico quando è stato male?
Continuavo a chiedere la mattina. La risposta: semplicemente è
peggiorato ed è morto. Silenziosamente. Senza disturbare. Senza
dover chiamare un dottore, senza dover dare una terapia d'emergenza o
fare una rianimazione. E' morto.
Questa
risposta vale in Africa, o almeno ad Aber. Questa risposta è
sufficiente. Non lascia nessuno insoddisfatto.
Neanche
me. Ma a me lascia il vuoto. Il vuoto che ha lasciato un ragazzino di
11 anni nella sua famiglia, per quanto scombinata, nel compound, nel
villaggio. In quel gruppo di 20 o 30 scalmanati che bigiano la scuola
e vanno a fare il bagno al fiume o si arrampicano sui manghi è
rimasto quel vuoto pneumatico che ha lasciato la risposta delle mie
infermiere nel mio stomaco.
Le mie
infermiere di quella notte sapevano che potevano chiamare il medico.
Sapevano che dovevano farlo. Ma non hanno voluto farlo. Non perché
sono cattive o menefreghiste. Non c'è nessun giudizio etico in
queste osservazioni. Di fatto il perché non va cercato in Africa.
Mai. Porta lungo chine pericolose.
Quella
africana non è la filosofia dei perché. Davanti al mio incalzare di
domande che seguono un inesorabile filo logico aristotelico non sono
mai riuscita ad ottenere risposte. Non so se per l'eloquenza della
mia retorica o per la totale mancanza di significato alle loro
orecchie.
Non è
ancora questo il vuoto più inaccettabile. Ma quello che separa
questo mondo da quello che pensa che in questo stesso spazio e tempo
si possa mettere un laboratorio analisi grandissimo e costosissimo in
grado di fare esami e quindi diagnosi di malattie che poi non
sapremo, non potremo, e soprattutto non vorremo curare.
Si può
cambiare certo. Ma il cambiamento suppone tante fasi e tutte
dipendono strettamente dalla scelta del soggetto del cambiamento
stesso.
Il vuoto
inaccettabile è quello fra due mondi che non solo non si sono mai
realmente conosciuti e capiti, ma che non si sono proprio mai
incontrati e nonostante ciò sembrano condannati a vivere insieme
nello stesso barattolo. Sotto vuoto. Senza possibilità di trovare un
mezzo che li metta in comunicazione.
Noi,
mondo bianco, continuiamo a pensare che loro abbiano bisogno di
strumenti, di possibilità, di formazione. E che siamo noi a
doverglieli dare. Ma è quello che noi pensiamo. E a guardar bene è
un po' supponente, quasi quasi direi razzista. Questo pensiero
dominante del cooperante, dell'aiutante, dell'elemosinante ha
ingabbiato noi e loro in un gioco delle parti da cui è quasi
impossibile uscire. Ed è la forma di colonialismo più subdola e
velenosa che io abbia mai visto.
Chapeau Pizzi!
RispondiElimina