giovedì 18 aprile 2013

Aber - Anno II - trentanovesima settimana

Ma il Mal d’Africa esiste?
Definizione di Wikipedia: “ nel linguaggio comune Mal d’Africa si riferisce alla sensazione di nostalgia di chi ha visitato l’Africa e desidera tornarci (così come saudade è la nostalgia del Brasile).
Sono rientrata in Italia da ormai due settimane e non so ancora se condividere la definizione di Wikipedia ma credo di essere affetta da mal d’Africa. Dopo sei mesi passati ad Aber è stata tanta la gioia di rivedere la mia famiglia, il mio fidanzato, gli amici e i colleghi di lavoro. E’ stato bello tornare nella mia comoda e accogliente casa, e finalmente dormire tranquillamente e profondamente, senza sentire mille rumori di chissà che animali, non rischiare più di trovare rospi in bagno o topi in cucina (ringrazio Marco che è sempre venuto in mio soccorso)… Che gioia tornare nella mia pizzeria preferita e gustarmi una buona pizza, per non parlare delle prelibatezze preparate dalla mia mamma e dalla suocera che hanno deciso di mettermi all’ingrasso! E’ stato bello tornare a lavorare in un moderno ospedale, super pulito, tutto mi sembra così profumato (altro che gli odori della chirurgia, vero Mari?), quanti esami a disposizione , quanti antibiotici e la sala operatoria: LUSSO! Bisturi elettrico, fili di sutura a volontà….
Eppure, mentre da un lato mi sento sollevata, perché sono tornata nel mio mondo, dall’altro ho una strana malinconia, un senso di tristezza e mi vengono in mente i cieli azzurri sopra ad Aber, la fitta vegetazione verde che alle volte mi sembrava soffocante,le strade piene di gente giovane che si muove a piedi o con le biciclette, le jerican gialle, i vestiti colorati delle donne, i volti allegri delle mie infermiere, la passeggiata al fiume, il chapati dell’Hellen, la Polly e i suoi vestiti, i sorrisi del Samu, le facce affamate del Francy per ottenere un biscotto, le appassionanti ipotesi diagnostiche e gli scambi chirurgo-infettivologo con la Mari e le più filosofiche discussioni con Marco….
Sono passati 15 giorni da quando ho lasciato Aber, la mia casetta a fianco alla famiglia Piccio, il mio lavoro di chirurga in un piccolo ospedale rurale, ma i sentimenti sono ancora confusi e ci vorrà del tempo per elaborare a pieno il senso di questa esperienza… Il bilancio finora è positivo, credo di essere cresciuta professionalmente e umanamente, di aver riscoperto la passione per il mio lavoro, di aver avuto la fortuna di condividere il mio cammino con persone speciali che mi hanno arricchito, di aver migliorato il mio spirito di adattamento e aver aperto la mente a modi diversi di pensare e affrontare la vita…
Ma rimane un senso di amarezza, perché tutti questi aspetti sono positivi per me ma io che cosa ho lasciato ad Aber, che cosa è servita la mia esperienza all’Africa? Non fraintendetemi, sei mesi fa non ero partita con deliri di onnipotenza, ma con uno spirito umanitario che credo spinga molte delle persone che partono per un paese in via di sviluppo. E’ un’amarezza che nasce dalla consapevolezza che l’Africa a te da tanto ma tu puoi fare poco, i tempi non sono maturi e la tua presenza (soprattutto come ong) spesso può fare solo danni …  
Non voglio essere pessimista o disfattista, sono considerazioni realistiche maturate dopo sei mesi difficili, fatti di arrabbiature e delusioni, ma anche di gioie e soddisfazioni e in cui non ho perso speranza nell’uomo e nel tempo che aiuterà a maturare la coscienza dei propri diritti e l’esistenza di doveri morali e materiali…
Nel mio piccolo spero che la mia dedizione al lavoro e quindi ai pazienti, i miei tentativi di stimolare uno spirito femminista tra le mie infermiere, le chiacchiere con Hellen (la mia housekeeper) su come dovrebbe cambiare la condizione delle donne in Uganda, i soldi prestati a Margaret per far studiare sua figlia, il regalo fatto a Dorcus per regalarle un nuovo sorriso o a l’incoraggiamento a Polly per la sua nuova attività, abbiano lasciato un piccolo segno, come un sasso lanciato in uno stagno!
Credo che questo sia l’unico modo  veramente sensato di fare cooperazione in Africa, se così si può definire, e la famiglia Piccio lo fa ogni giorno.
Grazie per avermi sostenuto e guidato in questi sei mesi, siete forti e state facendo tanto con poco, le nostre strade si sono incrociate per poco, ma anche se da lontano vi sostengo nel vostro cammino che è difficile, ma che vi renderà più forti  e che in silenzio come il sasso lanciato nello stagno sta generando onde concentriche negli animi di chi incontrate, alcune onde più superficiali e altre molto più profonde…
Un abbraccio, smetto di scrivere, il mal d’Africa si sta facendo sentire di nuovo….

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